NARZOLE

Scorrazzavano per le strade impolverate, sbucando a ogni angolo del paese. Calzoncini corti, zazzera in testa e mani già abituate al lavoro. Erano i bambini di San Nazario, piccola frazione nella campagna di Narzole. Molti rispondevano al cognome Sanino, famiglia che affonda le sue radici in quel fazzoletto di terra da oltre cent’anni. Erano così tanti che, a metà degli anni Cinquanta, il parroco si convinse a costruire per loro una scuola proprio a fianco alla chiesa. Ma in quelle aule non entrò nessuno studente. Quando iniziò il grande esodo verso la città (in particolare verso le fabbriche torinesi), il progettò si arenò e della scuola non rimase che l’involucro. Un contenitore vuoto, che da lì a qualche anno, si sarebbe trasformato in accogliente casa.

Una veduta d’insieme della cascina a San Nazario

Ma la storia della famiglia Sanino inizia molto prima, a metà dell’Ottocento.

Giacu d’le crave (Giacomo Sanino, detto “Giacomo delle capre”) è il capostipite. Uomo d’altri tempi, conduce una vita semplice, fatta di sacrifici, lavoro e tanta inventiva per tirare avanti. Quel soprannome se l’è guadagnato girando di cascina in cascina a macellare animali: come forma di pagamento una parte del capretto che finisce nella cucina della moglie Marianna. Abitano in un piccolo cascinale dall’altra parte della strada, a cinquanta metri da dove oggi i pronipoti mandano avanti l’azienda agricola.

A cena a tavola siedono in otto: oltre ai due genitori, prendono posto Giacomo (classe 1900), Giovanni, Pietro, Marianna, Lucia e Giovanna. Una famiglia numerosa, che non tradisce l’amore per quel paese. Avendo nella stalla un paio di piemontesi da mungere e poche giornate da coltivare, non appena possibile i ragazzi cercano di arrotondare facendo altri lavori. Giovanni affianca all’impegno nei campi il mestiere di commerciante, mentre Pietro decide di aprire una piccola bottega alimentare nel cuore della frazione. Una frazione che, agli inizi del Novecento, conta più di mille residenti.

A continuare l’attività agricola è Giacomo.

Sfuggito al dramma della guerra, dopo essersi sposato con Felicina Taricco, accresce la famiglia: nascono Marianna, Irene, Albino (1934) e Mario.

Non solo vacche: nell’aia galline e conigli, nel porcile un paio di maiali da ingrassare.

Non ancora trentenne, Albino unisce la propria vita a quella di Paola Servetti (1938). È l’aprile del 1961 quando convolano a nozze nella chiesa al centro del paese. Ed è in quello stesso anno che, dopo aver rilevato l’azienda da papà, la storia di Albino s’intreccia con quella del caseificio Biraghi: da quel momento, il latte munto nella stalla di San Nazario si trasforma in formaggio a Cavallermaggiore. Poco più di un bidone al giorno. Così arriva il primo assegno, firmato allora dal fondatore Ferruccio Biraghi: è di 25 mila lire.

Albino capisce che la strada da seguire è quella: investe sull’azienda, amplia la vecchia stalla, inserisce nella mandria alcuni esemplari di francese, cerca di portare avanti sia l’allevamento per la produzione di latte che quello per la vendita di carne.

Albino con i genitori, fratello e sorelle
Il capostipite Giacu d’le Crave

Sono anni di grande fermento e crescita. Anni in cui, dopo essersi confrontato con don Antonio Cane – una sorta di sindaco della frazione –, Albino decide di buttare il cuore oltre l’ostacolo. Compra dalla parrocchia un piccolo appezzamento di terreno, proprio dietro quella che nei progetti del sacerdote sarebbe dovuta diventare una scuola, e lì costruisce la prima stalla (1977), che segna la svolta decisiva: il ricovero è pensato solo per vacche frisone e ci si concentra sull’allevamento di bovini da latte.

Quando la mandria trasloca dalla vecchia stalla, il figlio più grande di Albino ha già quindici anni: Giancarlo (1962) è il primogenito, poi ci sono Romano (‘67) e Elena (’77). Mentre l’ipotetica scuola si trasforma nella casa di famiglia, in azienda arrivano le prime novità: negli anni Ottanta s’installa il sistema di trasporto latte per mungere una sessantina di capi, mentre crescono le giornate di terreno da coltivare. Intanto, su spinta dei giovani figli, si cerca di rendere completamente “autonomo” l’allevamento, arrivando a una gestione totalmente interna del ciclo di vita della mandria, dalla fecondazione dell’animale alla nascita dei vitelli.

Lo spazio non basta più. Nel 1996 viene costruita una nuova stalla, con sala mungitura, e due anni più tardi Giancarlo e Romano subentrano al papà con un piano d’insediamento giovani.

Come si presentava negli anni Ottanta la cascina

Si modifica anche la vecchia stalla, si costruisce un capannone per il ricovero degli attrezzi. L’azienda continua a crescere (fino ad arrivare alle 150 vacche in lattazione di oggi), così come pure la famiglia. Giancarlo si sposa con Agnese Daniela Merlo – che darà alla luce Riccardo (1987) e Damiano (1994) – mentre Romano convola a nozze con Franca Rinaudo – tre figli: Paolo (1998), Luca (2000) e Michela (2002).

A unire con un filo invisibile le generazioni non c’è solamente l’attività in cascina.

C’è anche una passione, nata quasi per caso da nonno Albino, oggi portata avanti da Romano e da Luca. È quella per la ricerca ai tartufi, rari prodotti d’eccellenza, che costringono gli appassionati a levatacce prima del sorgere del sole e a lunghe passeggiate nei boschi in compagnia dei fidati amici a quattro zampe. Ma, come si dice, alle passioni non si comanda. Si ubbidisce.