Non c’è agricoltura senza ricerca

Intervista al presidente di Agrion, tra cambiamenti climatici e nuove tecnologie

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Sostenibilità da un lato. Redditività dall’altro. Due risvolti di una medaglia che devono avanzare di pari passo per favorire lo sviluppo delle aziende e al tempo stesso promuovere la difesa del nostro ambiente. Su questo lavorano ogni giorno alla Fondazione Agrion, presieduta da Giacomo Ballari e con sede a Manta, per promuovere la ricerca e l’innovazione nel campo agricolo, consentendo agli imprenditori di lavorare nelle migliori condizioni possibili e rispondendo agli ideali di produzione che devono vedere un sempre minore ricorso ai pesticidi ma anche una più alta consapevolezza nell’uso delle risorse, a cominciare dall’acqua che sta diventando particolarmente preziosa.

È il presidente Giacomo Ballari a raccontare che cos’è Agrion, il cui nome è già un simbolo perché da un lato riunisce le parole agricoltura e innovazione ma tradotto dal francese significa libellula, insetto che si può ancora vedere nei luoghi lontani dall’inquinamento.

Presidente, quando è nata Agrion e con quali finalità?

«È stata costituita nel 2015 da Regione Piemonte e Unione Camere con l’intento di raggruppare tutte quelle che, a livello regionale, erano le precedenti esperienze e attività di ricerca applicata in agricoltura. Lo studio e l’innovazione sono sempre più necessari in questo settore perché dobbiamo contribuire a fornire modelli produttivi in funzione dello sviluppo del territorio, esigenza particolarmente forte nelle aree più marginali, penso ad esempio alle nostre vallate. Chi decide di lavorare in agricoltura deve poter avere a disposizione un paniere di modelli per sviluppare la propria attività. Anche le produzioni di un tempo sono state riviste con l’introduzione di nuove tecnologie volte ad aumentare la resa, o scegliendo di coltivare prodotti diversi in funzione del cambiamento climatico cui stiamo assistendo».

C’è modo di prepararsi al clima che cambia? Riusciamo a prevedere come sarà tra qualche anno e a programmare le colture di conseguenza?

«Dobbiamo farlo. Non si tratta di essere veggenti ma di studiare e mettere insieme i dati. Non lo facciamo da soli ma attraverso una rete che comprende anche i poli universitari e coinvolge le migliori competenze che ci sono sul mercato per dare le risposte più concrete ed efficaci possibili alle aziende. Nel lavoro di divulgazione ci facciamo poi aiutare dai tecnici di consulenza, ne abbiamo 35 solo per la frutticoltura, con il compito di diffondere il nostro lavoro ma anche di raccogliere le esigenze direttamente da chi opera sul campo».

Come si coniugano le tecnologie e i progressi nella ricerca con il lavoro che svolgono quotidianamente gli agricoltori?

«L’attività di studio rappresenta ormai un elemento imprescindibile per essere concorrenziali a livello mondiale. Questo è chiaro che deve avvenire attraverso risposte semplici e immediate per gli operatori. Grazie ad esempio ad alcuni lavori che stiamo sviluppando, ora siamo in grado di gestire l’irrigazione riducendo ulteriormente il consumo di acqua perché non ci limitiamo a valutare fattori quali le condizioni del terreno, ma attraverso dei sensori possiamo persino capire se la pianta ha sete oppure no. Il lavoro dietro è complicato ma alla fine sono degli algoritmi a gestire il tutto, con semplici macchinari a disposizione di chi coltiva. Sono opportunità che consentono di ridurre il consumo di acqua ma soprattutto di leggere il fabbisogno reale della pianta, migliorando in tal modo la qualità del prodotto».

Com’è il rapporto con le istituzioni e soprattutto che risposta avete in termini di finanziamenti per portare avanti la ricerca?

«La nostra è una struttura che sta crescendo, ma in futuro occorrerà investire sempre di più in questa direzione e siamo ancora decisamente lontani dalle cifre di altri territori anche non molto distanti da noi, ad esempio l’Alto Adige o il Trentino, nostri principali competitori che lavorano con investimenti decisamente più alti».

Com’è l’atteggiamento dei giovani? C’è un ritorno al mestiere dell’agricoltore?

«In questo momento a essere sinceri non va tanto di moda fare l’agronomo e lo si vede dagli iscritti alle scuole di Agraria che non sono molti.

Quelli che ci sono però si presentano determinati e motivati, hanno dei profili interessanti e mi sento di dire che per loro c’è uno spazio enorme».

Come Fondazione avete promosso la realizzazione delle Oasi per la biodiversità, coinvolgendo molti Comuni del territorio. Com’è andata l’iniziativa e avrà un seguito?

«È andata molto bene, oltre duecento sindaci hanno aderito creando un campo per gli insetti impollinatori. Quello che vorrei ora è che il progetto si espandesse, coinvolgendo anche le aziende che potrebbero, in alcuni spazi inutilizzati, seminare con le fioriture dedicate alle api e non solo. Sarebbe un gesto dal forte valore sia a livello ambientale che di immagine. L’idea parte dalla constatazione che uno dei problemi principali per questi insetti è la carenza di alimentazione, dovuta alla progressiva desertificazione. Quindi non si tratta soltanto di difenderli dai pesticidi ma di fare in modo che per tutto l’anno abbiano cibo a disposizione».

La sede del centro di ricerca Agrion a Manta

A proposito invece delle coltivazioni biologiche, in passato se ne sentiva parlare spesso mentre oggi sembra un po’ calata l’attenzione, come mai?

«Sì, in passato c’è stato un exploit anche in Piemonte mentre ora assistiamo a un rallentamento dovuto in parte alla flessione dei mercati. I consumi sono scesi per via della crisi e di conseguenza anche alcune aziende hanno fatto un passo indietro. C’è poi da dire che si verificano problematiche legate alle colture stesse, per le quali non è sempre facile trovare una soluzione. Gli obiettivi vanno bene ma occorre farli conciliare con la sopravvivenza dell’azienda».

Consumatore, grande distribuzione. Chi detta le regole del mercato?

«Ciò che preferisce il consumatore è il primo riferimento e poi chiaramente la grande distribuzione. Per questo è importante per molte realtà distinguersi offrendo prodotti di nicchia. Specializzarsi può essere il modo per giocare bene le proprie carte quando diventa difficile competere sui grandi numeri. Ogni anno soltanto tra Manta e Boves abbiamo ottocento nuove varietà in prova, facciamo sperimentazione, raccogliamo informazioni e selezioniamo le qualità migliori per arrivare sul mercato con l’offerta più buona e adatta possibile. Chiaro che si fanno scelte diverse in base alla destinazione stessa di quello che si produce. Se deve venire immagazzinato, viaggiare magari oltreoceano prima di essere consumato richiederà caratteristiche diverse rispetto a un prodotto che viene raccolto oggi per essere venduto già il giorno seguente».