Antibiotici nei cibi: dov’è il limite?

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Continuano gli approfondimenti sul tema dell’antibiotico-resistenza con un prezioso contributo della professoressa Ilaria Braschi e delle dottoresse Alice Checcucci e Paola Mattarelli del Dipartimento di Scienze e Tecnologie Agro-Alimentari dell’Università di Bologna.

In linea generale, quando si parla di sostanze pericolose per la salute, occorre ricordare che esiste un valore di concentrazione oltre al quale la sostanza è considerata pericolosa, valore che è definito dal proprio limite di legge. L’acqua che beviamo, l’aria che respiriamo, il cibo che assumiamo, i materiali stessi con cui veniamo in contatto contengono un gran numero di sostanze che possono essere considerate tossiche se superano una determinata concentrazione definita dal limite di legge. Questo valore deriva da prove di tossicità il cui risultato viene ulteriormente diminuito dai tossicologi in via cautelativa.

È alquanto comune leggere articoli divulgativi che riportano la presenza di varie sostanze potenzialmente tossiche in alimenti. Gli stessi articoli spesso dimenticano di riportare il fatto che le concentrazioni a cui queste sostanze vengono rivelate (misurate) non costituiscono un problema per la salute umana. A questo punto occorre spendere qualche parola anche sul limite di rivelabilità (anche noto come limite di quantificazione) che è la concentrazione più bassa a cui una sostanza può essere misurata.

Quando invece parliamo di antibiotici, il quadro è differente: essi infatti possono essere pericolosi anche a basse concentrazioni. L’antibiotico possiede un dosaggio per kg di peso corporeo che, utilizzato per il tempo suggerito dal medico o veterinario, assicura la sua azione terapeutica contro infezioni sviluppate da microrganismi patogeni. Come tutti i farmaci, l’antibiotico, oltre ad essere espulso tramite feci e urine, viene metabolizzato (cioè trasformato) dall’organismo (sia esso uomo o animale) con delle tempistiche che dipendono dal tipo di molecola e dal tipo di organismo ospite. Per tale motivo, e a tutela della salute dei consumatori, la legge impone un limite massimo di residuo (LMR) negli alimenti di origine animale.

L’utilizzo di antibiotici negli allevamenti zootecnici può portare l’animale trattato a selezionare al proprio interno microrganismi resistenti, e questa selezione diventa più probabile a bassi dosaggi. La presenza di antibiotici a bassa concentrazione (detta sub-inibitoria) non riesce infatti a inibire la crescita dei microrganismi, ma li stimola a sviluppare sistemi di resistenza che possono consentire di sopravvivere in un ambiente diventato a loro sfavorevole.

Ciò significa che i prodotti alimentari, quali ad esempio carni, uova e formaggi, che contengono residui di antibiotici, anche se a concentrazioni al di sotto del limite massimo consentito per legge, possono favorire lo sviluppo di microrganismi antibiotico-resistenti, in particolare nel tratto gastro-intestinale dell’ospite. Lo sviluppo di antibiotico-resistenze è la principale causa della inefficacia degli antibiotici nella cura delle infezioni batteriche ed è alla base del ciclo di cause-effetti che portano all’aumento di mortalità registrato negli ultimi decenni a causa di infezioni da parte di microrganismi antibiotico-resistenti.

Recentemente, molte ricerche scientifiche si sono focalizzate sull’influenza che l’utilizzo di antibiotici in zootecnia può avere sulla produzione di formaggio. I residui di antibiotici nel latte, seppur a livelli legalmente consentiti, possono determinare problemi tecnologici all’industria lattiero-casearia.

Infatti, nella produzione di formaggio vengono utilizzate miscele di batteri detti starter (principalmente costituiti da lattobacilli). Gli antibiotici presenti in tracce nel latte possono interferire con i microrganismi che costituiscono lo starter, impattando sulla loro crescita, modificando il normale ciclo di produzione del formaggio causandone alterazioni nella struttura (ad esempio le tipiche occhiature).

Oltre a questa visibile conseguenza, i residui di antibiotici nel latte potrebbero indurre fenomeni di antibiotico-resistenza negli starter. Oltre ai batteri che costituiscono lo starter, alcuni tipi di formaggio, principalmente quelli che vengono prodotti da latte crudo, sono naturalmente colonizzati da numerosissimi altri microrganismi provenienti dall’ambiente e dal tratto gastrointestinale delle mucche da latte. Un articolo recentemente pubblicato sulla rivista American Dairy Science Association ha evidenziato che i batteri ubiquitari del genere Enterococcus presenti nel latte destinato alla caseificazione ospitano numerosissime antibiotico-resistenze. Potenzialmente quindi, essi rappresentano una fonte di antibiotico-resistenza per i microrganismi del tratto gastro-intestinale del consumatore. I tratti genetici che determinano antibiotico-resistenza possono essere già naturalmente presenti in moltissimi batteri ed essere scambiati tra batteri mediante meccanismi di trasferimento genetico in seguito alla pressione selettiva esercitata dalla presenza stessa di antibiotico.

Ovviamente la riduzione dell’utilizzo di antibiotici in medicina veterinaria potrebbe permettere di produrre latte senza antibiotici, impedendo la creazione delle condizioni ambientali che favoriscono queste trasmissioni tra microrganismi diversi.

Anche evitare l’utilizzo contemporaneo di diverse tipologie di antibiotici limiterebbe la pericolosissima resistenza multi-antibiotico, che permette l’acquisizione di più resistenze da parte dello stesso microrganismo.

Per valutare in maniera corretta ed esaustiva il reale rischio della presenza di antibiotico-resistenze nei microrganismi starter o in quelli naturalmente presenti nei formaggi assicurandone la salubrità per il consumatore, diviene necessario incentrare le ricerche future sulle condizioni e i fattori che determinano la loro trasferibilità.